I  SETTE VIZI CAPITALI 3.  L’INVIDIA

I SETTE VIZI CAPITALI 3. L’INVIDIA

(Segue l'intervento del 14/12/07)
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Tra feste varie e serate infinite,le vacanze hanno rallentato notevolmente la mia produzione di “poemi”, come qualcuno li ha soprannominati. Vorrei, però, chiudere l'anno salutando tutti gli amici di nightguide, e cercherò, soprattutto, di applicare alcuni consigli che mi sono stati dati, come prova del fatto che le critiche per me sono davvero importanti e mi fa piacere riceverle. Mi venga perdonata l'incapacità di attenermi fermamente a queste regole tecniche di buona scrittura, anche perché, per natura, mi caratterizza una certa parlantina...
In particolar modo, più che riportare citazioni letterarie, questa volta mi soffermerò sulle interpretazioni psicoanalitiche del comportamento incline al vizio, soprattutto della persona invidiosa,un aspetto del discorso che mi diverte non poco. Buona lettura!
L'INVIDIA
L'invidia è la sofferenza per il bene degli altri e l'invidioso è colui che non sopporta chi gode di qualcosa che gli manca.
Sappiamo che la Chiesa lo inserisce tra i sette vizi capitali, quindi lo ritiene un peccato di grave natura.
La filosofia buddista, invece, la considera uno dei fattori che possono associarsi allo stato mentale dell'odio.
Questo è un atteggiamento prima di tutto di natura sociale, perché subentra nel momento in cui ci relazioniamo con gli altri e ne possiamo notare le differenze, ma sostanzialmente fa parte del proprio carattere, in quanto esso è il nucleo della personalità, ed è qualcosa di più istintivo e non maturo. Il carattere, infatti,è una sorta di stampo, il cui contenuto può essere plasmato dall'esperienza per costruirsi un modo di essere più adulto, perciò l'invidia rientra in questa piccola parte del Sé come un limite autoimposto di fare qualcosa per migliorarsi. Ha a che vedere con la volontà di non guardarsi dentro per non scoprire i propri limiti, e si rivolge all'esterno come negazione del riconoscimento che esista qualcuno capace più di noi di crescere ed essere migliore.
Nella Bibbia l'invidia è il peccato di Lucifero che non sopporta la vicinanza dell'uomo a Dio, ormai a lui negata; è il peccato di Caino che non tollera che il fratello Abele sia più amato da Dio; è il peccato di Esaù nei confronti di Giacobbe, il fratello favorito nella successione; ed è il peccato di Saul nei confronti di Davide,perché più amato dal popolo di Israele.
L'invidia è dunque un sentimento di malevolenza verso gli altri che va contro il precetto evangelico dell'amore verso il prossimo e rompe la solidale fraternità che Dio ha voluto ci fosse tra gli uomini.
E' un sentimento doloroso, che si impone spesso contro la propria volontà e del quale è difficile liberarsi attraverso riflessioni di tipo razionale. L'invidia comporta infatti rancore, odio, ostilità verso chi possiede qualcosa che l'invidioso non ha. L'invidia agisce allora come un meccanismo di difesa, come un tentativo di recuperare la fiducia e la stima di se stessi, attraverso la svalutazione di chi ha di più: in termini di fortuna, di successi personali, di possibilità economiche ecc.
Ma riusciamo a considerarlo un male se guardiamo alle conseguenze che porta: raramente l'invidia resta solo un atteggiamento di evidente inferiorità rispetto ad un'altra persona, e nel migliore dei casi semina sospetto e diffidenza, allontanando gli altri; il più delle volte si traduce in conflittualità e violenza. Caino, per esempio, uccide Abele; Esaù per invidia semina la discordia in famiglia; Saul per invidia fa la guerra a Davide.
L'invidia è insomma il peccato sociale per eccellenza, quello che rompe i legami tra gli uomini, distrugge la pace, impedisce la convivenza. Dante lo inserisce nella seconda cornice del Purgatorio, dove sono puniti i sette vizi capitali, e tra le varie argomentazioni, lega quelle, appunto, della superbia, dell'avarizia e della corruzione politica.
Gregorio, in un passaggio della Regula pastoralis, ne parla come del peccato che introduce nel corpo sociale l'antagonismo dei piccoli nei confronti dei grandi, degli inferiori nei confronti dei superiori, mettendo così in discussione il modello, nello stesso tempo gerarchico e solidaristico, della societas christiana. E' estremamente facile, a questo punto, credere superbamente di non essere invidiosi e di essere, al contrario, oggetto di invidia: infatti, la prima bassezza dell'uomo consiste nel non saper riconoscere i propri limiti, e credersi migliori di quello che si è effettivamente, quindi o innalzarsi troppo attraverso la presunta condizione di superiorità , oppure di seminare conflitti perché troppo invidiosi del bene altrui.
Alla base dell'invidia c'è, generalmente, la disistima e l'incapacità di vedere le cose e gli altri prescindendo da se stessi: in questo senso, si può affermare che l'invidioso è generalmente frustrato, egocentrico, capace di rapportarsi agli altri esclusivamente in modo competitivo. Parlando in termini diagnostici (ovviamente da prendere criticamente), l'invidia è alla base di una personalità narcisistica (che in psicopatologia viene attribuita in maniera diversa di come lo si fa nel gergo solitamente), caratterizzata da manie di persecuzione perché l'invidioso ritiene che gli altri lo spiino, parlino male di lui, che vogliano togliergli la felicità, ecc...; in realtà, non è affatto così come il narcisista crede, (tale da che poter diventare paranoico- altro termine psicodiagnostico di significato ben differente dall'uso che se ne fa di solito- ) e arrivare a commettere atti contro se stesso o contro altre persone, convinto di agire nel giusto e con ragione.
L'invidioso assume spesso atteggiamenti e comportamenti ben precisi e, quindi, riconoscibili,tra cui i più tipici comportamenti del disprezzo sia delle persone che degli oggetti invidiati, che per via di una loro mancato sfogo, possono diventare fonte di ansia. Ne è una proverbiale rappresentazione la favola di Esopo, “ La volpe e l'uva”. Infatti in essa viene descritto uno stato di profonda prostrazione, di comportamenti molto aggressivi e di tentativi di sminuire l'invidiato raggiungendo toni esasperati, arrivando anche al pubblico disprezzo e alla pubblica derisione, come per giustificare la propria posizione e attribuire la colpa agli altri del proprio star male, perché inconsciamente si sa che questo confronto mette in luce la propria inferiorità; allora si deve, per liberarsi da questa ansia, assolutamente evidenziare le mancanze altrui, i difetti, facendo sentire gli altri ridicoli, sempre inadeguati alle situazioni e non all'altezza della propria persona. Chi è invidioso, spesso è automaticamente geloso, e riesce a far scappare l'oggetto “amato”.
L'invidioso, da ultimo, resta solo e ottiene l'effetto inverso, perché è egli stesso ad essere, poi, deriso.
Come dire, quindi, che l'invidia fa del male, ma sta peggio .
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In greco, peccare si traduce come <>, ecco perché è importante notare come per tutti i vizi, e in particolar modo per quello dell'invidia, è il peggior modo per indirizzare i propri obiettivi di vita e i propri atteggiamenti, in quanto sono privi di qualsiasi forma di costruttività.
Sbagliare strada in questo senso, vuol dire, caratterizzarsi come persone dure di cuore, incapaci di amare davvero (ecco perché la gelosia, allo stesso modo, è priva di significato d'amore ed è legata all'incredulità e alla sfiducia che si ha del proprio compagno di vita). Il peccato si manifesta, perciò, nell'orgoglio, nella paura, nell'egoismo, nell'avidità di accumulare oggetti materiali e disinteresse per gli aspetti non terreni della vita e, punta massima, nell'ozio, dal quale discende, in virtù di logica, il peccato dell'accidia, cioè la noia, la sonnolenza mentale,la mancanza per il gusto del “normalmente interessante”, che porta alla “malattia dello spirito contemporaneo” . Mi viene spontaneo, a questo punto, ripensare ad un classico scritto di Erich Fromm,"Da Avere a essere", che riflette proprio sull'assenza di una personalità nell'uomo moderno, e di un essere non concreto, il quale cerca di specchiarsi nell'accumulo di materialità. Persino nell'espressione di una influenza ormai usiamo dire "ho il raffreddore" e non "sono raffreddato", esattamente per indicare questo status di possesso sulla quale basiamo le nostre esistenze.
Non posso dimenticarmi dell'epica invidia degli dei nei confronti degli uomini, che grazie alla mortalità, sarebbero felici durante la loro esistenza. Per esempio, Afrodite è la capricciosa dea della bellezza che ogni mattina si osserva nel suo specchio magico, riflettente l'immagine spettacolare della propria avvenenza e lei si rallegra, certa che nessuno potrà mai eguagliarne lo splendore.
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Ma anche all'incontrastata diva, una subdola forma d'invidia si cela nel cuore, quella di non essere sempre al centro dell'attenzione degli uomini. L'immortalità, perciò, non assicura nessuna forma di felicità, così come l'eterna bellezza estetica.Viene raccontato che gli dei, oltre a diversi mortali, vennero invitati al matrimonio di Peleo e Teti (i futuri genitori di Achille), ma la dea della Discordia Eris non venne invitata, così essa si presentò con una mela d'oro con iscritte le parole "alla più bella", che gettò tra le dee. Afrodite, Era e Atena, quindi, iniziarono ciascuna a sostenere di essere la più bella fra tutte, e quindi ad avere il diritto di entrare in possesso della mela. Le dee scelsero di portare la questione all'attenzione di Zeus, in quale , a sua volta, mise la scelta nelle mani di Paride.
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Era, quindi, cercò di corrompere Paride offrendogli l'Asia Minor;Atena gli offrì, invece, fama e saggezza e gloria in battaglia; Afrodite sussurrò a Paride che se la avesse scelta come più bella, avrebbe avuto in moglie la più bella delle donne mortali. Spinto dalle varie corruzioni, egli scelse il suggerimento di Afrodite, facendole ottenere l'oggetto dei desideri tanto conteso. La donna promessa, invece, era Elena, infatti sappiamo che poi, infuriate, le altre dee,per mezzo del rapimento di Elena da parte di Paride, fecero scoppiare la Guerra di Troia.
Invece gli uomini, sarebbero felici, in quanto hanno la possibilità di vivere ogni momento come fosse l'ultimo, e renderlo perciò indimenticabile. Ma gli stessi dei si sono ammalati poiché, dopo aver creato un mondo non alla pari della loro superiorità, sono diventati accidiosi, hanno perso parte della loro natura divina e sono diventati simili ai mostri.
Infine, è triste dirlo, ma il nostro tempo e grossa parte dei miei coetanei sono caratterizzati dall'accidia, dalla noia, dal vizio discendente da un benessere non guadagnato, perciò vivono senza obiettivi, con la presunzione che tutto sia loro dovuto.
Ecco perché parlavo di intenzionalità al peccato, citando Kant: se non abbiamo voglia di guardare in faccia alla realtà, se non abbiamo intenzione di cambiare in meglio, crescere, non c'è casualità nel peccare. E' solamente una scelta, una inclinazione decisa non dalla nostra natura, ma dalla stupidità dell'essere umano,che ha paura degli eventi esterni, quando invece dovrebbe temere se stesso, poiché può diventare il nemico più importante per chiunque.
C'è salvezza per l'anima,quindi, eccome... ma questo è un altro discorso ancora. Riguarda le intenzioni e le volontà, esattamente le due componenti che mancano nella personalità accidiosa che la prossima volta proveremo a descrivere....
Buon anno a tutti!
Rosanna Perrone
Fonte:

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