
GLISZ: L'INTERVISTA AL NUOVO TALENTO ITALIANO DELL'ELETTRONICA A VOCAZIONE INTERNAZIONALE, FUORI AD AGOSTO CON L'EP NO:MAD
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24/06/2025 | dl
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Il titolo NO:MAD ha un doppio significato, tra nomadismo e identità. Come sei arrivato a questa scelta e cosa rappresenta per te oggi, a livello personale e artistico?
NO:MAD potrebbe essere rappresentato come un viaggio, che racchiude quello che probabilmente la nostra generazione ha vissuto fino ad ora. La nostra epoca ci spinge continuamente ad adattarci a cambiamenti continui e la vera sfida è non impazzire, bisogna rimanere lucidi e non perdersi. Mi riconosco in questo spirito: ho vissuto in Italia, negli USA, ora in Spagna e non so dove domani. NO:MAD è una rappresentazione di questo, è un manifesto sonoro.
Le tracce dell'EP fondono house, ambient ed elementi tradizionali africani. Come hai lavorato a questo equilibrio tra elettronica moderna e strumenti acustici ancestrali come oud, kora e dulcimer?
Utilizzare strumenti tradizionali autentici e farli suonare da qualcuno che li padroneggi è probabilmente la chiave per la creazione di brani etnici. Non riflettono solo l'abilità del musicista, ma portano anche la storia e l'anima delle culture da cui provengono. Le loro armoniche bilanciano naturalmente i toni più sintetici della produzione elettronica, rendendo la composizione ancora più viva. Questi strumenti conservano ancora un'energia grezza e autentica. Molti sono fatti a mano e suonati in spazi pubblici dalle comunità locali. Raccontano storie di tradizione, forza e persistenza. Ho avuto la possibilità di registrarne alcuni mentre lavoravo negli studi di Los Angeles e lì ho realizzato che la fusione tra questi e i sintetizzatori avrebbe potuto creare qualcosa di unico. Fondere questi suoni organici con elementi elettronici è un modo per collegare il passato con il presente. Si tratta di abbracciare lo sviluppo e la digitalizzazione, senza dimenticarne l'origine.
Il singolo “Vertive” è l'anagramma di “vetiver”, una pianta ayurvedica antistress. In che modo questa simbologia si riflette nel suono e nel messaggio del brano?
Ho iniziato a produrre Vertive pensando di creare qualcosa che potesse farmi stare meglio. Volevo creare un brano che potesse scatenare le stesse sensazioni negli ascoltatori, un rimedio sonoro che aiutasse a superare i momenti difficili. L'interazione tra il basso e i synth crea un'ondata di alti e bassi sonori, una montagna russa emotiva. La voce dà la giusta energia per alzare la testa e continuare a lottare.
La voce di Cheshy in “Vertive” aggiunge una forza particolare al pezzo. Come è nata la vostra collaborazione?
Vertive inizialmente doveva essere un brano solo strumentale. Tuttavia, mentre lo ascoltavo a ripetizione, ho pensato che anche una versione con voce avrebbe potuto funzionare. Il brano si apre e si chiude come un vecchio disco in vinile, con una dissolvenza in entrata e in uscita e il suo scopo è quello di trasmettere energia positiva e forza. Aveva bisogno di una voce forte e soul per catturare appieno questo spirito. Nel momento in cui ho sentito la voce di Cheshy, ho capito che era quella giusta: il suo timbro aveva una forza cruda che corrispondeva esattamente a ciò che avevo immaginato. Lavorare con lei è stato facile. Le ho chiesto grinta e potenza e lei mi ha risposto con la versione perfetta. La sua voce e i suoi testi hanno aggiunto la profondità emotiva di cui il brano aveva bisogno e hanno dato vita all'intera opera.
Hai iniziato come DJ nei club torinesi, poi sei passato alla produzione, fino a trasferirti a Los Angeles. Qual è stato il momento di svolta in cui hai capito che volevi creare un progetto personale come Glisz?
A Torino ho studiato musica e creato progetti musicali quando ancora la città era un punto di riferimento per la scena elettronica italiana e non solo, soprattutto con luoghi simbolo come i Murazzi - dove tra l'altro sono nate importanti band. Ho vissuto l'ultimo periodo di quella fase, prima della sua progressiva chiusura e trasformazione. Quel contesto mi ha spinto a voler partire. La passione per l'audio—quasi un'ossessione—mi ha portato a Los Angeles, dove ho deciso di specializzarmi e imparare dai migliori. La tecnica acquisita negli studi di Los Angeles mi ha permesso di avere più conoscenze del suono e dell'audio. La manipolazione sonora si acquisisce con il tempo e, come ho detto in precedenza, la registrazione di strumenti etnici negli studi ha sviluppato l'idea di creare un progetto in cui questi suoni si fondessero con l'elettronica. Da lì è nata l'idea di Glisz.
Nel tuo percorso hai studiato con nomi come Dave Isaac e Francis Buckley. Cosa hai imparato da loro che applichi ancora oggi nella tua musica?
Adam Kagan, Francis Buckley e Dave Isaac sono solo alcuni dei Maestri che mi hanno insegnato tanto, non solo per quanto riguarda la parte tecnica, ma anche l'approccio che si deve avere in questo lavoro. Dave Isaac aveva un modo tutto suo di insegnare, raccontava il significato di buttare energia in un disco e la visione che si deve avere in mente per rendere viva un'opera sonora. Adam Kagan e Francis Buckley mi hanno insegnato molto sulla parte tecnica, ma soprattutto la resilienza, a non arrendersi durante la produzione, finché non si è trovato il suono che si stava cercando. Quando si ha l'opportunità di imparare da professori che hanno lavorato a stretto contatto con Ray Charles, Michael Jackson, per citarne alcuni, ogni singolo consiglio è importante. Sono situazioni in cui capisci perché nella vita hanno realizzato qualcosa.
Hai lavorato anche con nomi della scena italiana come Vicio dei Subsonica e Jeffrey Jay degli Eiffel 65. Quanto l'esperienza italiana ha influenzato il tuo approccio rispetto a quella americana?
Ogni collaborazione insegna qualcosa. Lavorare con artisti italiani come Vicio o Jeffrey mi ha messo in contatto con un approccio più artistico, probabilmente. Negli Stati Uniti, invece, ho trovato un'impostazione più tecnica. Credo che l'equilibrio tra queste due visioni—l'intuito italiano e il rigore americano—abbia influenzato profondamente il mio modo di produrre e di pensare la musica.
L'EP è stato concepito tra Torino e Los Angeles. Come hanno influito queste due città, così diverse, sul suono e sull'anima di NO:MAD?
Il tema dell'immigrazione è il filo conduttore di NO:MAD, ed è un fenomeno molto presente sia a Torino che a Los Angeles, seppur in forme diverse. Ho cercato di tradurre tutto questo in suono, Torino mi ha dato un senso di radicamento, di memoria, mentre Los Angeles ha portato con sé il caos e un senso di movimento continuo. Una giungla multiculturale dove lo spirito di adattamento è essenziale per la sopravvivenza. Due energie opposte, ma entrambe necessarie per costruire l'identità nomade di questo EP.
La tua musica ha un forte lato emotivo e introspettivo. Cosa speri che l'ascoltatore provi ascoltando NO:MAD dall'inizio alla fine?
In NO:MAD ho cercato di raccontare una storia attraverso la musica. Ogni brano ha il suo
carattere distintivo e la sua personalità. L'EP vuole raccontare la precarietà contemporanea che spinge gli esseri umani a tornare alle proprie origini, a viaggiare, ad adattarsi. Allo stesso tempo, il titolo NO:MAD è un'affermazione di identità: “Non siamo pazzi”. Una dichiarazione di lucidità in tempi confusi, una reazione all'instabilità mentale generata dal cambiamento. L'EP vuole accompagnare gli ascoltatori attraverso quegli alti e bassi emotivi che tutti possiamo affrontare nel corso della vita, durante i quali, però, possiamo ritrovare la nostra vera forza. La mia speranza è che NO:MAD lasci un po' di curiosità nella mente degli ascoltatori, la voglia di riascoltare tutti i brani per cogliere qualche suono nuovo che non hanno notato al primo ascolto.
Nightguide è molto attento alla scena dei club, dei concerti. C'è un aneddoto legato a un club o festival di Torino e dintorni, del presente o del passato, che ti ha reso particolarmente orgoglioso della tua città?
Quando penso alla scena torinese, non posso non ricordare i Murazzi: luoghi ed eventi che hanno segnato un'epoca e dove si vivevano serate difficili da replicare altrove. Un lungofiume che rendeva Torino una delle città più vive a livello musicale, soprattutto per l'elettronica. Oggi non vivo più lì, quindi non mi sento di giudicare o raccontare nel dettaglio la scena attuale, ma sicuramente eventi come Kappa FuturFestival o Club To Club continuano a tenere alto il nome della città. Riescono ancora a portare artisti di livello internazionale e a mantenere Torino rilevante nel panorama elettronico europeo. E questo, da torinese, è motivo d'orgoglio.
NO:MAD potrebbe essere rappresentato come un viaggio, che racchiude quello che probabilmente la nostra generazione ha vissuto fino ad ora. La nostra epoca ci spinge continuamente ad adattarci a cambiamenti continui e la vera sfida è non impazzire, bisogna rimanere lucidi e non perdersi. Mi riconosco in questo spirito: ho vissuto in Italia, negli USA, ora in Spagna e non so dove domani. NO:MAD è una rappresentazione di questo, è un manifesto sonoro.
Le tracce dell'EP fondono house, ambient ed elementi tradizionali africani. Come hai lavorato a questo equilibrio tra elettronica moderna e strumenti acustici ancestrali come oud, kora e dulcimer?
Utilizzare strumenti tradizionali autentici e farli suonare da qualcuno che li padroneggi è probabilmente la chiave per la creazione di brani etnici. Non riflettono solo l'abilità del musicista, ma portano anche la storia e l'anima delle culture da cui provengono. Le loro armoniche bilanciano naturalmente i toni più sintetici della produzione elettronica, rendendo la composizione ancora più viva. Questi strumenti conservano ancora un'energia grezza e autentica. Molti sono fatti a mano e suonati in spazi pubblici dalle comunità locali. Raccontano storie di tradizione, forza e persistenza. Ho avuto la possibilità di registrarne alcuni mentre lavoravo negli studi di Los Angeles e lì ho realizzato che la fusione tra questi e i sintetizzatori avrebbe potuto creare qualcosa di unico. Fondere questi suoni organici con elementi elettronici è un modo per collegare il passato con il presente. Si tratta di abbracciare lo sviluppo e la digitalizzazione, senza dimenticarne l'origine.
Il singolo “Vertive” è l'anagramma di “vetiver”, una pianta ayurvedica antistress. In che modo questa simbologia si riflette nel suono e nel messaggio del brano?
Ho iniziato a produrre Vertive pensando di creare qualcosa che potesse farmi stare meglio. Volevo creare un brano che potesse scatenare le stesse sensazioni negli ascoltatori, un rimedio sonoro che aiutasse a superare i momenti difficili. L'interazione tra il basso e i synth crea un'ondata di alti e bassi sonori, una montagna russa emotiva. La voce dà la giusta energia per alzare la testa e continuare a lottare.
La voce di Cheshy in “Vertive” aggiunge una forza particolare al pezzo. Come è nata la vostra collaborazione?
Vertive inizialmente doveva essere un brano solo strumentale. Tuttavia, mentre lo ascoltavo a ripetizione, ho pensato che anche una versione con voce avrebbe potuto funzionare. Il brano si apre e si chiude come un vecchio disco in vinile, con una dissolvenza in entrata e in uscita e il suo scopo è quello di trasmettere energia positiva e forza. Aveva bisogno di una voce forte e soul per catturare appieno questo spirito. Nel momento in cui ho sentito la voce di Cheshy, ho capito che era quella giusta: il suo timbro aveva una forza cruda che corrispondeva esattamente a ciò che avevo immaginato. Lavorare con lei è stato facile. Le ho chiesto grinta e potenza e lei mi ha risposto con la versione perfetta. La sua voce e i suoi testi hanno aggiunto la profondità emotiva di cui il brano aveva bisogno e hanno dato vita all'intera opera.
Hai iniziato come DJ nei club torinesi, poi sei passato alla produzione, fino a trasferirti a Los Angeles. Qual è stato il momento di svolta in cui hai capito che volevi creare un progetto personale come Glisz?
A Torino ho studiato musica e creato progetti musicali quando ancora la città era un punto di riferimento per la scena elettronica italiana e non solo, soprattutto con luoghi simbolo come i Murazzi - dove tra l'altro sono nate importanti band. Ho vissuto l'ultimo periodo di quella fase, prima della sua progressiva chiusura e trasformazione. Quel contesto mi ha spinto a voler partire. La passione per l'audio—quasi un'ossessione—mi ha portato a Los Angeles, dove ho deciso di specializzarmi e imparare dai migliori. La tecnica acquisita negli studi di Los Angeles mi ha permesso di avere più conoscenze del suono e dell'audio. La manipolazione sonora si acquisisce con il tempo e, come ho detto in precedenza, la registrazione di strumenti etnici negli studi ha sviluppato l'idea di creare un progetto in cui questi suoni si fondessero con l'elettronica. Da lì è nata l'idea di Glisz.
Nel tuo percorso hai studiato con nomi come Dave Isaac e Francis Buckley. Cosa hai imparato da loro che applichi ancora oggi nella tua musica?
Adam Kagan, Francis Buckley e Dave Isaac sono solo alcuni dei Maestri che mi hanno insegnato tanto, non solo per quanto riguarda la parte tecnica, ma anche l'approccio che si deve avere in questo lavoro. Dave Isaac aveva un modo tutto suo di insegnare, raccontava il significato di buttare energia in un disco e la visione che si deve avere in mente per rendere viva un'opera sonora. Adam Kagan e Francis Buckley mi hanno insegnato molto sulla parte tecnica, ma soprattutto la resilienza, a non arrendersi durante la produzione, finché non si è trovato il suono che si stava cercando. Quando si ha l'opportunità di imparare da professori che hanno lavorato a stretto contatto con Ray Charles, Michael Jackson, per citarne alcuni, ogni singolo consiglio è importante. Sono situazioni in cui capisci perché nella vita hanno realizzato qualcosa.
Hai lavorato anche con nomi della scena italiana come Vicio dei Subsonica e Jeffrey Jay degli Eiffel 65. Quanto l'esperienza italiana ha influenzato il tuo approccio rispetto a quella americana?
Ogni collaborazione insegna qualcosa. Lavorare con artisti italiani come Vicio o Jeffrey mi ha messo in contatto con un approccio più artistico, probabilmente. Negli Stati Uniti, invece, ho trovato un'impostazione più tecnica. Credo che l'equilibrio tra queste due visioni—l'intuito italiano e il rigore americano—abbia influenzato profondamente il mio modo di produrre e di pensare la musica.
L'EP è stato concepito tra Torino e Los Angeles. Come hanno influito queste due città, così diverse, sul suono e sull'anima di NO:MAD?
Il tema dell'immigrazione è il filo conduttore di NO:MAD, ed è un fenomeno molto presente sia a Torino che a Los Angeles, seppur in forme diverse. Ho cercato di tradurre tutto questo in suono, Torino mi ha dato un senso di radicamento, di memoria, mentre Los Angeles ha portato con sé il caos e un senso di movimento continuo. Una giungla multiculturale dove lo spirito di adattamento è essenziale per la sopravvivenza. Due energie opposte, ma entrambe necessarie per costruire l'identità nomade di questo EP.
La tua musica ha un forte lato emotivo e introspettivo. Cosa speri che l'ascoltatore provi ascoltando NO:MAD dall'inizio alla fine?
In NO:MAD ho cercato di raccontare una storia attraverso la musica. Ogni brano ha il suo
carattere distintivo e la sua personalità. L'EP vuole raccontare la precarietà contemporanea che spinge gli esseri umani a tornare alle proprie origini, a viaggiare, ad adattarsi. Allo stesso tempo, il titolo NO:MAD è un'affermazione di identità: “Non siamo pazzi”. Una dichiarazione di lucidità in tempi confusi, una reazione all'instabilità mentale generata dal cambiamento. L'EP vuole accompagnare gli ascoltatori attraverso quegli alti e bassi emotivi che tutti possiamo affrontare nel corso della vita, durante i quali, però, possiamo ritrovare la nostra vera forza. La mia speranza è che NO:MAD lasci un po' di curiosità nella mente degli ascoltatori, la voglia di riascoltare tutti i brani per cogliere qualche suono nuovo che non hanno notato al primo ascolto.
Nightguide è molto attento alla scena dei club, dei concerti. C'è un aneddoto legato a un club o festival di Torino e dintorni, del presente o del passato, che ti ha reso particolarmente orgoglioso della tua città?
Quando penso alla scena torinese, non posso non ricordare i Murazzi: luoghi ed eventi che hanno segnato un'epoca e dove si vivevano serate difficili da replicare altrove. Un lungofiume che rendeva Torino una delle città più vive a livello musicale, soprattutto per l'elettronica. Oggi non vivo più lì, quindi non mi sento di giudicare o raccontare nel dettaglio la scena attuale, ma sicuramente eventi come Kappa FuturFestival o Club To Club continuano a tenere alto il nome della città. Riescono ancora a portare artisti di livello internazionale e a mantenere Torino rilevante nel panorama elettronico europeo. E questo, da torinese, è motivo d'orgoglio.
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